40 anni fa Rocky Mattioli terzo italiano a vincere il mondiale all’estero

Milano, 5 maggio 2017 – Rocky Mattioli abita nel cuore di Milano, a due passi da Porta Venezia e Corso Buenos Aires, la street dove lo shopping è la quotidianità sono un incrocio di turismo e business. Casa di ringhiera, ambita dalla Milano bene e dagli stranieri alla ricerca di mura antiche, restaurata e impreziosita dai ricordi di una carriera ad altissimo livello negli anni ’70. Ogni locale è un film a colori, che racconta le tappe di una carriera dove pugni e volontà hanno costruito il guerriero di Ripa Teatina, la perla dell’Abruzzo dove sono nati i Mattioli e i Marchegiano, ovvero due campioni del mondo. Di Marciano, nato a Brockton nel Massachusetts, da genitori abruzzesi, ho scritto il libro “Rocky Marciano The King”, che ha trovato riconoscimenti e vendite. Oltre alla storia del re dei massimi, ho dedicato un lungo capitolo a Mattioli, l’altro figlio di Ripa, che a distanza di 25 anni, ha saputo conquistare nei medi jr., l’alloro mondiale sul ring non certo amico di Berlino. E’ il 6 agosto 1977, la sfida si svolge alla Sporthalle, gremita di spettatori convinti di assistere al trionfo del loro beniamino, il ragazzo di casa Eckehard Dagge, che fa impazzire i tanti fans e in particolare le ragazze e l’anno prima ha portato in Germania la cintura iridata, a spese di Elisha Obed, l’uomo delle Bahamas, costretto all’abbandono al decimo tempo. Primo tedesco a centrare nella categoria il bersaglio assoluto. Quella contro Mattioli è la terza difesa, in precedenza ha respinto gli attacchi e del tosto mancino di Antigua, Maurice Hope, che lo ha costretto al pari  e di un Emile Griffith, dal grande mestiere.

L’organizzatore Willy Zeller, un sorriso da iena in agguato, soggetto dalle molteplici attività, titolare di pelliccerie e locali notturni, oltre che manager di Dagge, ritiene che l’italiano non presenti difficoltà insormontabili. Alla conferenza stampa, ci consegna l’invito in un locale alla moda di Berlino, con cena e spettacolo annessi, per il dopo riunione, sicuro che il suo protetto resterà campione del mondo.

“Invece si erano sbagliati”,  ricorda col sorriso Rocky, mentre stacca dal muro la cintura che conquistò quarant’anni addietro e fa bella mostra assieme alle foto che coprono ogni centimetro delle pareti, in una fantasmagoria di scatti che raccontano la carriera di questo atleta nato a Ripa, cresciuto in Australia, emigrante alla rovescia, tornando nella terra del padre, a raccogliere il premio più ambito della noble art.  “Avevano sottovaluto il mio valore. Si erano tutelati, rifiutando l’arbitro inglese Harry Gibbs, ricordando la sconfitta subita dal tedesco contro Vito Antuofermo, che gli aveva soffiato l’europeo proprio a Berlino. Ottennero il californiano Richard Steele, contando sul fatto che il preparatore del campione era Mike Dundee, cittadino americano, dalle radici italiane”.

Prima di affrontare Dagge, in quell’anno a febbraio, contro il venezuelano, residente in Spagna, Arnold Olivares a Bellaria sulla costa romagnola, prima di vincere per ko al quinto round, ti sei ritrovato al tappeto per ben due volte. Una distrazione e un segnale pericoloso. Lo ricordi?

“Certamente, non fu piacevole, una brutta sensazione e una lezione importante. Non ero abituato al conteggio, semmai il contrario. Andai a spulciare il suo record e capii che aveva il pugno pesante ed era alla prima sconfitta per ko. Mi servì per aumentare la voglia di conquistare il mondiale. Anche se Umberto, Giovanni e Bruno Branchini non erano entusiasti di andare a Berlino. Avevano avuto dal matchmaker  George Kanter una buona offerta per disputare il mondiale negli Usa, ma alla fine accettarono la Germania. Ricordo che Umberto, un grande saggio e un profondo conoscitore della boxe, mi fece capire che ai punti non mi avrebbero mai dato la vittoria. Dovevo vincere per KO. Col maestro Ottavio Tazzi, svolsi la preparazione a Viareggio, lontano da tutto e tutti. Mi trovarono uno sparring, il mediomassimo argentino Aguirrezabala, alto come Dagge che imitava l’impostazione del tedesco. Ero diventato feroce, tanta era la voglia di vincere”.

Infatti hai messo Dagge ko alla quinta ripresa, dopo averlo dominato dal secondo round allo stop. Cosa ricordi?

“Tutto, fin dall’arrivo a Berlino. La falsa cordialità di Zeller, la supponenza di Dagge alla conferenza stampa. Lui parlava e sorrideva, io tacevo ma pensavo: parla adesso, perché sul ring starai zitto e capirai chi è Mattioli. I fatti mi diedero ragione. Fin dall’inizio capii che i suoi pugni non erano tanto potenti e mi temeva. Io stavo davvero bene, mi sentivo un leone e questa sicurezza aveva indispettito il tedesco. Che commise un grave errore, accettando lo scambio e media distanza. Fu la sua fine. Lo colpivo sopra e sotto, mentre lui non arrivava quasi mai al bersaglio. Alla quarta mi resi conto che era arrivato alla frutta. Colpivo in serie e uscivo di lato. Nella quinta lo misi subito alle corde, e sulla sua replica gli presi il tempo e arrivai alla faccia col destro ben caricato. Lo vidi crollare cercando appoggi che non esistevano. L’arbitro lo conta lentamente, ma il biondo non si alza. Al dieci è in equilibrio precario, le gambe molli e lo sguardo spento. Ero il nuovo  campione del mondo dei medi jr. una categoria dove gli italiani si sono sempre distinti, da Mazzinghi, Benvenuti e Bossi, con me è arrivato il poker”.

Ti volevano negli USA, per la prima difesa. Invece sei tornato in Australia contro Obed.

“Il primo match dopo il mondiale l’ho disputato a Milano e poi sono andato a Las Vegas, per farmi conoscere in previsione di una successiva difesa. Due vittorie deludenti e sofferte, per svariati motivi. Al Palalido stracolmo, più di 5000 persone, non potevo essere in forma, a quattro mesi dal mondiale. In quel frattempo mi sposo con Silvia Moroni, torno in Australia in viaggio di nozze, dove riabbraccio i genitori, le sorelle Irma e Anna che sono diventate mamme, oltre al fratellino Gabriele che in quel 1977 ha 14 anni. Investo una parte delle borsa, comprando un ranch con 160 mucche e divento produttore di latte.  Il primo viaggio dopo Berlino è a Ripa Teatina, dove sono nato nell’estate del 1953, a ritirare i documenti in comune. Accoglienza trionfale, il paese sembrava impazzito, il sindaco e gli assessori mi trattarono da vero campione. Sul ring del Palalido trovo Larry Paul, un inglese alto e dinoccolato, capellone e barbuto, che interpreta l’incontro come una maratona. Lo inseguo per 10 round, il pubblico fischia e ha ragione. Sono imbufalito, negli spogliatoi gli rimprovero la scarsa combattività, ma la risposta è precisa: “Sei il campione del mondo e io non volevo finire ko. Ci sono riuscito, anche se ho le piaghe nelle piante dei piedi. La mia prima volta a Las Vegas è stata un incubo. Sull’aereo sono al fianco di una signora che nonostante il raffreddore continua a farmi domande e mi ritrovo a Las Vegas con i sintomi di una bronchite. Mi alzo dal letto per il peso, poi ci torno, ho la febbre a 39 e mezzo. Il medico non vorrebbe farmi combattere, ma io insisto e salgo sul ring debole come uno straccio, anche se mi fanno una iniezione per tirarmi su. Prima di tornare in albergo con Umberto ci rechiamo nell’ufficio di Don King a ritirare la borsa, sui 10.000 dollari. Ad aprirci è Joe Louis, ancora imponente ma lento nei movimenti. Lo saluto, sono emozionato. Louis è stato forse il più grande massimo della storia. Quando usciamo, invece di andare nel Salone delle Feste, dove avrei incontrato i campioni del passato e del presente, entrai in camera, infilandomi in letto per smaltire la bronchite. Se ci penso mi arrabbio ancora oggi. La prima difesa fu un ritorno alle origini. In Australia arrivo a tre anni, dove papà Concezio lavora ai cavi elettrici. Io cresco libero e forte. Entro casualmente in palestra, stento all’inizio, poi cresco vertiginosamente”.

A questo punto, un passaggio sulla storia di Mattioli, pubblicato nel libro citato sopra illustra perfettamente la carriera del guerriero di Ripa Teatina.

Nel 1972, il diciottenne Rocco è la grande speranza del boxing australiano nei welter.                                                              “Volo sulle nuvole di una popolarità che mi arriva come un colpo di fulmine e mi abbaglia. Da ragazzino senza un dollaro in tasca, costretto a vivere con i magri proventi di papà Concezio che deve mantenere una famiglia di cinque persone, impegnato col pagamento della casa e altre incombenze quotidiane, a personaggio pubblico, con la gente che ti ferma per strada, al ristorante non ti presentano il conto, semmai chiedono l’autografo, amici mai visti che ti  ospitano nelle loro ville dove la piscina invece che in giardino si trova nel salotto, con vista parco. Le miss delle riviste patinate, te le ritrovi accanto, disinibite e disponibili, la testa comincia a girarti e pensi di essere davvero un mito. Poi ti risvegli all’improvviso, come succede in quel marzo del 1972, ammanettato nella stazione della polizia di Morwell, in attesa che il giudice decida il giorno del processo. Con in genitori in lacrime, che ti guardano disperati”.

Cosa hai combinato?

“Uno stupido peccato di gioventù. Guido la Giulietta Alfa Romeo di un amico e ammiratore, a bordo un paio di stupende ragazze e alcune bottiglie di Glen Grant vuote. Ci ferma la polizia e scopre che sono minorenne, non ho la patente e sto al volante in stato di ebbrezza, ovvero ubriaco. Esco dall’auto e i poliziotti cercano di bloccarmi per mettermi le manette. Mi ribello e al processo affermano che ne ho centrati ben quattro. Forse hanno esagerato o forse hanno ragione loro. Io non ricordo. Passo una notte in prigione, che non dimenticherò mai. Momenti crudeli ma utili per riflettere. Il giorno del processo, l’avvocato mi avvisa che la gravità delle accuse non consente illusioni. Aver picchiato i poliziotti è un’aggravante che mi assicura almeno un anno dietro le sbarre. Il resto potrebbe costarmi lo stesso periodo. Se va bene devo passare due anni in carcere. Vorrei sbattere la testa contro il muro, poi mi limito a piangere, in fondo ho solo 17 anni. Sono stato davvero un cretino”.

Mattioli mi racconta tutto questo nell’estate del 2013, ospiti a Ripa Teatina per la consegna del “Premio Rocky Marciano”. Rispolvera episodi di oltre quarant’anni addietro con lucidità e precisione incredibili. Scopro che ha memorizzato ogni incontro e conosce i precedenti dei suoi avversari a dimostrazione di una maturità professionale non comune. Mi spiega di essere sempre stato curioso e l’esempio è arrivato da Umberto Branchini, detto il “Cardinale”, un manager che parla inglese e conosce come nessun altro il mondo della boxe. Sorride e scuote il capo al ricordo. La lunga attività non ha certo logorato il suo fisico ancora tonico e asciutto ad oltre 60 anni. Ad illustrare la sua storia, ci sono anche i tatuaggi che porta sul corpo.

“Entro in tribunale, con le gambe che mi tremano. Poi avviene qualcosa di imprevisto. Dopo le deposizioni dei poliziotti, la difesa presenta i testimoni, che sono una marea. Pugili, allenatori, gente comune e parecchi ammiratori. Tutti ad insistere che è stato un episodio sporadico, che sono un bravissimo ragazzo, un ottimo pugile, la speranza della città. Osservo la scena, sorpreso e sbigottito. Non sono abituato a fare l’imputato. Il giudice ascolta e prende nota. Quando tocca a me, dico la verità e mi scuso. Prometto  che non ripeterò mai più la bravata. Al momento della sentenza, in aula c’è un silenzio irreale. Guardo i miei genitori e le mie sorelle, hanno espressioni strane. Ci alziamo tutti in piedi per ascoltare il giudice. Ha una faccia severa ma non cattiva, si mette gli occhiali e legge la decisione. Non ricordo esattamente le parole, ma afferro che il carcere può essere evitato, pagando una multa salatissima. Non solo, il giudice si rivolge direttamente a me e mi invita a rispettare in futuro la legge e diventare un buon esempio attraverso la boxe e non prendere la strada della delinquenza. Sono passati tanti anni, ma non ho mai dimenticato quel consiglio. Il pagamento della multa risulta un affare serio. Papà chiede aiuto ai parenti che prestano i soldi per mettere insieme la cifra, tipo duemila dollari, lo stipendio di un anno e più. Nel contempo giuro a me stesso che certi errori non li avrei più ripetuti”.

Promessa mantenuta?

“Assolutamente sì, anche se non sono mai stato un fraticello. Lo scherzetto mi costa un anno di inattività. Quando riprendo sono imbufalito. Ogni incontro diventa una battaglia feroce, picchio gli avversari con rabbia. Nel maggio del 1973, a Carlton, vinco il titolo australiano, la cintura più importante, battendo Jeff White che mi sovrasta come esperienza. Ho 20 anni e una fidanzata croata, seguita da una ventina di amici a fare il tifo a mio favore. Affronto il più esperto White che mette in palio il titolo. Match previsto sui 15 round. Le quote mi vedono sfavorito nettamente, ma molti amici scommettono a mio favore e vinceranno parecchi dollari. Il campione non ci sta a perdere, inizia cercando di mettermi paura con assalti feroci, prova anche a tagliarmi strisciandomi i guantoni sul viso. Quando siamo vicini, minaccia di distruggermi, dice che sono un ragazzino, mi deride. Non sa che le sue frasi sono uno stimolo. Dopo undici riprese all’arma bianca, lui è in riserva, io conservo molte energie, che scarico nel round successivo. Lo centro alla bocca dello stomaco con un gancio sinistro seguito dal diretto destro in faccia, la mia specialità e per White si spengono le luci. Lo guardo ironico mentre va KO. Al verdetto, gli ricordo che doveva fare più attenzione al ragazzino. Scuote la testa e non ha il coraggio di replicare. Per contro, a esplodere di gioia sono i croati che non si sono limitati a incoraggiarmi, ma hanno abbondato con la birra. Salgono sul quadrato e iniziano a ballare per festeggiarmi. Dai e ridai, sfondano il ring e precipitiamo tutti sul pavimento. Per fortuna nessuno si fa male veramente, solo qualche sbucciatura e le urla dell’organizzatore che intende farsi risarcire per il danno. Resto titolare per quasi tre anni. Mi sento fortissimo. Affronto avversari di ogni tipo. Tra i battuti pure Eddie Perkins, che ormai ha 37 anni ma non è certo vittima predestinata, degli ultimi 21 incontri ne ha vinto ben 18, un pari e due sconfitte. La vera discesa inizia con me. Vinco netto, perché quando arrivo faccio male e  lui deve riprendere fiato e si ferma sulle gambe. Il 1975 inizia male. Perdo il titolo contro Alì Afakasi, un samoano che risiede in Nuova Zelanda ad Auckland. Verdetto per ferita, non certo per bravura. I welter mi stanno troppo stretti. In quel periodo conosco Giovanni Branchini, giunto in Australia per convincermi a tentare la fortuna in Italia, visto che ho il doppio passaporto.”

La famiglia Branchini mi tratta come uno di famiglia,  meravigliosi. Fanno l’impossibile per mettermi a mio agio. Sono spesso a casa loro, mi alleno alla palestra “Doria” di Milano, dove approdano tutti i migliori professionisti italiani e non solo. Il maestro si chiama Ottavio Tazzi che mi fa anche divertire, parla in milanese e io capisco a fatica l’italiano. E’ un tecnico in gamba. Combatto due volte al Palazzo dello Sport, vincendo bene, ma Milano non mi piace, sento la nostalgia dell’Australia e dopo tre mesi, ritorno a casa. L’organizzatore locale Dick Leen jr., mi accoglie a braccia aperte. In agosto salgo batto  Fernand Marcotte, un canadese giramondo. Lo metto ko alla nona ripresa. Il ritorno a casa mi crea uno stato di euforia, ho 22 anni e non resisto agli inviti degli amici. Niente illeciti, ma i locali notturni hanno tentazioni che poco si addicono col miglior rendimento sul ring. Le ragazze più dei liquori mi stuzzicano, dire di no è praticamente impossibile. Solo più tardi vengo a conoscere la trappola che mi ha teso Dick. , non solo con la bella vita. Affronto Harold Weston, americano di New York, battuto in Italia da Arcari, ma pure vincitore di Antuofermo sia pure per ferita. L’arbitro consente a quel bassetto di colore, di fare tutto, colpi bassi e gomitate e mi mette in difficoltà. Perdo il match. Ma dietro c’è la beffa. L’organizzatore ha pagato il referee per farmi perdere. Una vigliaccata. La strada migliore per diventare un vero campione è quella italiana, sotto la guida dei Branchini”.

Rientro definitivo, visto che da quell’ottobre del 1975, non hai più avuto la nostalgia dell’Australia.

“Sì e no. Quando smetto definitivamente nel 1982, la voglia di tornare si fa sentire eccome. La famiglia vive a Morwell, papà, mamma, le sorelle e mio fratello. Tra l’altro ho la fattoria con 160 mucche da latte, affittata ai rancheros. Mi legano quindi interessi. Ma il  matrimonio e l’allargamento della famiglia con tre figli, mi costringono a restare a Milano. Quando nel ’92 muore papà a 70 anni, decido di vendere il ranch, anche perché i guadagni li introitano gli altri. Ormai mi sento italiano e spero di concludere il mio percorso terreno dove sono nato, a Ripa Teatina”.

di Giuliano Orlando

 

Leave a Comment