LA SCOMPARSA DI CAVICCHI, UN CAMPIONE DAL PUGNO DURO E DAL CUORE TENERO

 

di Gianni Virgadaula

Foto Archivio Storico FPI

Dotato di un fisico scultoreo che lo rendeva simile ad un “bronzo di Riace” o a una statua greca del Pantheon, Franco Cavicchi, finita la carriera pugilistica, grazie alla sua prestanza avrebbe potuto fare anche l’attore, così come prima di lui avevano fatto tanti altri campioni del ring. Ma, appesi i guantoni al chiodo, la sua indole riservata e la sua discrezione, gli suggerirono di tornare a lavorare la terra. Lui era un contadino ed è rimasto fiero di esserlo anche oggi che conta 86 primavere. Il suo ultimo combattimento lo aveva disputato il 25 febbraio del 1963 nella sua Bologna contro Tommy Fields, uscendone sconfitto per KO al 7° round. Aveva 35 anni, e pensò che quella fosse l’età e il momento giusto per dire basta.

Nato a Pieve di Cento il 12 maggio del 1928 Francesco Cavicchi iniziò a fare la boxe nella mitica palestra “Sempre Avanti”, che oggi può vantare quasi 115 anni di attività, essendo stata inaugurata il 12 maggio del 1901. “Cecco”, così lo chiamavano i più,  alla fine degli Anni ’40 fu un buon pugile dilettante, indossò 5 volte la maglia azzurra e nel 1952 divenne a Trieste Campione italiano agli Assoluti. Lo stesso anno, il 1° ottobre, esordì al professionismo battendo Mario Azzarà per ko al 2° round. Divenne campione italiano dopo 21 match mettendo KO al 10° round Uber Bacilieri al Palazzo del ghiaccio di Milano. In quel momento il suo curriculum aveva una sola macchia a causa della sconfitta subita per sq. Al 4° round a Monaco il 15 ottobre del ‘53 contro il tedesco Ugo Salfed. Seguirono altre 17 vittorie consecutive di cui ben 16 prima del limite.  E fu per questa potenza che possedeva nelle sue mani enormi che di lui si diceva: “ha dei muson da sbriler al carbur” …ha dei nocioni da sbriciolare il carburo. Egli fu anche chiamato “Emilian Bull”, forse per fare il verso a “Racing Bull” cioè al formidabile Jack La Motta, che in quegli stessi anni aveva conteso nei pesi medi la palma del migliore a Ray “Sugar” Robinson.

Al 40° combattimento da professionista, Franco Cavicchi ebbe l’opportunità di divenire campione europeo dei pesi massimi; avvenimento rimasto negli annali del pugilato italiano e nel cuore dei bolognesi di cui “Cecco”era divenuto idolo. L’epico combattimento, organizzato brillantemente da Bruno Amaduzzi futuro manager di Nino Benvenuti, si svolse il 26 giugno del 1955 allo Stadio Comunale di Bologna di fronte a 60.000 spettatori. Quella sera un biglietto in poltronissima costava 16.000 lire, ma chi non aveva molto da spendere poté vedere l’incontro sugli spalti con la modica somma di… 600 lire. Certo è che la sfida lanciata al campione, il tedesco Heinz Neuhaus, rappresentava per il peso massimo italiano la grande occasione di una carriera che sino a quel momento era stata sapientemente guidata da Renato Torri, e che ora cominciava a dare, dopo tanti sacrifici e rinunce, i suoi frutti anche dal punto di vista economico. Ma l’ostacolo che lo divideva dalla gloria non era facile da superare. Neuhaus, detto anche il “birraio” di Dorttmund, era un uomo ostico che deteneva la cintura europea dal 1952. I tifosi però non avevano dubbi sull’esito del match e anche la stampa, che aveva definito Cavicchi il “nuovo Carnera”, dava per vincente il pugile pievino. Certo è che l’incontro iniziò subito sotto i migliori auspici, se è vero che già alle prime schermaglie un poderoso destro di Cavicchi al cuore costrinse il tedesco ad inginocchiarsi un attimo sulla stuoia. Era quello un segnale di come l’incontro si sarebbe sviluppato. L’italiano infatti riuscì ad imporre autorevolmente il suo pugilato, sebbene Neuhaus ebbe un ritorno nella parte finale del match. Ma la leggenda dice che nel momento decisivo per le sorti del combattimento, qualcuno, urlando da bordo ring, avesse ricordato a Cavicchi come negli anni della guerra alcuni soldati tedeschi, penetrati nella casa colonica dei genitori, avevano portato via un maialino che avrebbe dovuto sfamare per un anno intero la sua  numerosa famiglia. Un episodio questo che certo “Cecco” non aveva dimenticato e che forse gli iniettò nuove energie in quel suo violento forcing finale che gli consentì di battere nettamente ai punti il tedesco. Così, alla fine delle quindici riprese Cavicchi veniva proclamato nuovo campione d’Europa dei massimi, impresa riuscita in precedenza solo ad Erminio Spalla e Primo Carnera.

Dopo quella vittoria la popolarità di “Cecco” crebbe a dismisura, ed egli fu ricevuto al Quirinale dal Presidente della Repubblica Gronchi e in udienza da papa Paolo Pio XII. Sul piano sportivo egli si era invece guadagnato la stima di Nat Fleischer, il più grande cronista di pugilato di tutti i tempi. Nat infatti, nel luglio del 1955, nella sua classifica pubblicata su The Ring, pose Cavicchi al nono posto della categoria dei pesi massimi allora dominata da Rocky Marciano. Da considerare che in quella classifica Archie Moore risultava essere al 1° posto e appena un gradino più alto dell’italiano era posizionato Ezzard Charles, vincitore del grande Joe Louis. Cavicchi insomma era entrato nelle simpatie degli americani e il meglio della sua carriera sembrava dovesse ancora arrivare. Tutto sarebbe ora dipeso dalla sua determinazione e dalla forza devastante dei suoi pugni.

Con queste prospettive, il 4 settembre del ’55 a Dortmund Cavicchi incontrò nuovamente Neuhaus in un match di rivincita che però non aveva il titolo in palio. Il tedesco vinse per squalifica al 9° round, e quella fu la seconda sconfitta in carriera per l’emiliano, anche questa, come la prima, decretata da una squalifica. Quasi a volere dire che “Cecco” lo si poteva battere solo con un verdetto casalingo o squalificandolo, sebbene poi egli fosse un pugile abbastanza corretto.

Certo è che dopo Dortmund, fra Cavicchi e Neuhaus era d’obbligo la bella. I due quindi si ritrovarono faccia a faccia il 21 luglio del 1956 a Bologna, titolo europeo in palio. Fu un incontro senza storia. Allenato scrupolosamente da Venturi, e al meglio della forma, Cavicchi umiliò il tedesco e lo mise KO all’undicesimo round. Quello fu anche l’anno in cui il pugile sposò Anna Maria, che gli avrebbe poi dato due figli: Sanzio e Claudia. Tutto insomma sembrava girare a meraviglia per il campione di Pieve, e adesso pareva davvero che dovessero schiudersi per lui le porte degli States. Non c’è quindi da sorprendersi se molti in quel periodo cominciarono a sognare ad un incontro fra Cavicchi e il grande Marciano. Sarebbe stato un match al fulmicotone fra due italiani… di due mondi diversi. L’Italia, uscita sconfitta e in miseria dalla guerra, e l’America, ricca e contraddittoria, ma sempre generosa nell’offrire una possibilità a chiunque la meritasse. Prima di pensare però ad un così prestigioso traguardo come poteva essere una sfida mondiale, “Cecco” doveva respingere l’assalto di un promettente peso massimo, lo svedese Ingemar Johansson, medaglia d’argento alle Olimpiadi di Helsinki, che nei suoi primi 14 incontri aveva sempre vinto, sebbene con pugili mediocri. Di fatto, nessuno avrebbe scommesso una lira sullo sfidante e l’andamento del match, combattutosi a Bologna il 30 settembre del ’56, sembrava destinato a premiare Cavicchi, il quale alla fine del 12° round  dominava il match con largo margine. Al 13° round accadde però l’imprevisto. Johansson trovò il colpo duro e mandò al tappeto l’italiano con un violento destro di rimessa. Ma il pugno dello svedese per quanto potente non sembrava essere risolutore. Per questo coloro che assistettero all’incontro rimasero sconcertati nel vedere Cavicchi attendere rassegnato i 10 secondi dell’arbitro che infine lo dichiarò out. L’impressione fu che l’italiano non volle continuare a combattere pur essendo ancora nella condizione di farlo. Quindi, fu un momento di crisi psicologica più che fisica a togliere dai giochi il pugile pievino, mentre Johansson, destinato tre anni dopo a divenire campione del mondo con la vittoria su Floyd Patterson, tornò in Svezia con la cintura europea dei pesi massimi, un traguardo che certo non avrebbe mai pensato di raggiungere così fortunosamente.

Dopo la clamorosa sconfitta subita proprio nello stadio che lo aveva consacrato come uno degli sportivi più amati del momento, Cavicchi non recuperò più la brillantezza degli anni migliori. Al suo rientro vinse 3 facili incontri per KO, ma di seguito avrebbe alternato vittorie di poco conto a clamorose sconfitte patite per mano di avversari spesso inferiori di lui. Nondimeno, nel 1958 a Bologna figurò bene contro un campione come Willie Pastrano dal quale venne battuto ai punti in 10 round. Poi il 7 dicembre del 1960 venne sconfitto ai punti dal tedesco Karl Mildenberger, che nel 1966 avrebbe affrontato Muhammad Alì – Cassius Clay per il titolo mondiale dei pesi massimi. Poi altre 2 batoste nel 1961, subite da Bert Whitehurst e da Ulli Nitzschke.  A quel punto per “Emilian Bull” sembrava proprio calato il sipario. Nondimeno, il 2 dicembre del ’61 Cavicchi tentò contro Sandro Mazzola la riconquista del titolo italiano. La sfida fini pari, e i due si incontrarono nella rivincita il 18 marzo del ’62. Stavolta il pievino riuscì a prevalere ai punti e tornò ad essere campione italiano della massima categoria. Quella vittoria però rappresentò per lui il canto del cigno. Egli infatti perse il successivo incontro con lo sfidante Santo Amonti che lo privò del titolo grazie ad una vittoria per squalifica, ottenuta alla quinta ripresa.

Del ritiro di Cavicchi si è già detto, così come del suo tornare ad essere contadino senza rimpianti, fra le sue terre e i suoi animali. Negli anni, molti cronisti che ebbero modo di seguire le vicende sportive del campione emiliano, scrissero che egli non raggiunse mai più alti traguardi perché non aveva temperamento e in fondo non amava neppure la boxe. Affermazione che non mi sento affatto di condividere. Non si può salire sul ring da professionista per 89 volte (tanti furono gli incontri di Cavicchi) senza amare questo sport capace di entrarti nel sangue come un “dolce veleno” anche se hai disputato un solo combattimento. Vero è piuttosto che egli, proprio perché rispettava il pugilato e ne riconosceva il rigore e la spietatezza, volle lucidamente tutelare sempre la sua integrità fisica. D’altronde, “Cecco” teneva pure alla salute di chi gli stava di fronte con i guantoni protesi; non a caso in una famosa intervista ebbe a dire: “perché devo dare 10 pugni al mio avversario se posso batterlo con 8?”. Una concezione nobile, ma anche pragmatica e intelligente della boxe, che tuttavia non gli impedì di vincere 45 volte per KO su 71 vittorie complessive ottenute.

(articolo pubblicato nel n. 3/2015 di Boxe Ring)

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