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STORIE DI ORDINARIA PASSIONE: Giacobbe Fragomeni al secondo round della vita.
18 maggio 2017 – Da “C’era una volta il buio” al lieto fine. Una vita travagliata, quella descritta nel libro di Valerio Esposti, ma il Campione del Mondo Pro WBC ha saputo rialzarsi e andare oltre la favola, oggi più maturo e più forte ma con la stessa ed inconfondibile solarità. Degli anni, quelli con la scritta “anta”, per i più fortunati, si dice sempre “averli e non sentirli”. Nel caso di Giacobbe Fragomeni non è un questione di età ma di carattere. Sorride sempre il campione dei massimi leggeri, a se stesso, agli altri, alla vita. Per quello che ha passato ci si aspetterebbe un volto segnato, sofferente e invece gli unici segni che si intravedono sono quelli della passione, del sacrificio, della grande voglia di sfidare il mondo ma in modo sano, da vero boxeur. I suoi tatuaggi non mentono, anzi, danno vita a ricordi indelebili. Tutto passa e si rinnova. Alle soglie dei 48 anni, Giacobbe ritorna con grinta sul ring, il 24 giugno a Milano la prossima sfida, ma, come dice lui, non ha mai smesso di indossare i guantoni. A fare da spartiacque tra quello che è possibile e impossibile nella boxe è il limite di età imposto dal regolamento federale. Per il pugile milanese questo non è mai stato un problema, lui vuole raggiungere un nuovo traguardo, un nuovo record. Un’infanzia difficile, la perdita della sorella, l’alcol, la droga, ad un passo dal carcere e dal suicidio. Poi la boxe, con 41 incontri sostenuti, di cui 34 vittorie, 14 prima del limite, 5 sconfitte e 2 pareggi, la cintura mondiale conquistata nel 2008, battendo ai punti il colosso Rudolf Kraj, e mantenuta fino al 2009, il giro del mondo e due titoli internazionali WBC nel 2004 e nel 2011. Poi la famiglia: la moglie Sara e due figli, Letizia, in ricordo della sorella, avuta dalla prima compagna, e Giacobbe Junior. Non ultimo il sociale, con la partecipazione a numerosi progetti in carcere e contro il bullismo. Riflettori puntati, anche in tv, la vita di Fragomeni è nota a tutti. Ma ora c’è molto di più: un’identità forte, spalle larghe e ancora tanto da dare.
Giacobbe (vista la conoscenza mi permetto di dargli del tu!) sei rientrato sul ring ufficialmente il 14 gennaio del 2017. Come stai vivendo questa seconda opportunità e cosa è cambiato rispetto a prima?
In realtà, non me sono mai andato. Mi sono fermato, ho riflettuto ed ho deciso di rimettermi in gioco, trovando in mia moglie un’ottima alleata. Ho ritrovato Biagio Zurlo e insieme siamo partiti. Abbiamo tolto la ruggine ed è andata sempre meglio. Mi sento decisamente più carico rispetto all’inizio, a parte gli acciacchi che però sono normali, perché un atleta se non si fa male vuol dire che non lavora. Sono ritornato agli antipodi, alla vecchia scuola. Ormai passo più tempo a Napoli nella Boxe Vesuviana che a casa. Gli allenamenti sono duri. Hai presente il film Rocky IV con Balboa e Drago? Ecco io sono Rocky. Non uso macchinari perché sul ring una cosa devi fare: “hai da menà!”. Il mio obiettivo, come quello del Maestro Zurlo, è di salire sul ring in ottima forma fisica e mentale. Ho bisogno di sfidare me stesso e continuerò fino a quando starò bene e mi daranno l’idoneità. Se un giorno dovessi smettere almeno lo farei con la consapevolezza di non avere alcun rimpianto. Sono anche realista: farò al massimo altri due o tre match. Vedremo. Adesso mi sento ancora forte e solo nel confronto con l’avversario capirò il mio stato, i miei limiti. Mi piacerebbe raggiungere un record che penso che in Italia ancora non ci sia: diventare il primo quarantottenne a vincere un titolo.
Chi è oggi Giacobbe Fragomeni?
Il fratello del vecchio Giacobbe Fragomeni. Il fratello migliore però. Sono più maturo, più uomo e so a cosa vado incontro, coscientemente. Sono contento di quello che sono diventato e lo devo al pugilato. Prima ero senza speranze e pensavo solo al presente, oggi anche al futuro dovendo tramandare qualcosa ai miei figli, in primis la mia esperienza di vita. Cerco di destreggiarmi nei panni dell’atleta quanto di marito e papà. Quando devo salire sul ring sono solo un pugile, sebbene lasci un pezzo di cuore. Invece quando sono a casa mi dedico completamente alla famiglia, anche se la boxe è sempre con noi.
Come continueresti la tua autobiografica “Fino all’Ultimo Round”?
Descrivendo tutte le cose belle che mi sono capitate. Il bagaglio che ho in più è sicuramente l’esperienza e un credo che si è rafforzato negli anni: l’importante è non mollare mai, andare sempre avanti e non piangersi addosso. Ai miei figli lo ripeto sempre, come quanto ci sia da imparare da una sconfitta. Nella mia carriera le sconfitte mi sono servite più delle vittorie. Ho perso quando ho affrontato un avversario più forte e, nonostante tutto, gli ho dato del filo da torcere. Una lotta, quella con me stesso, che non finirà mai, fino all’ultimo round appunto. Quando nasci e cresci in una certa situazione non lo dimentichi, i tuoi mostri li porti con te per tutta la vita. C’è sempre la possibilità di perdere il controllo anche nella normalità e nel benessere.
Le tappe principali del campione e dell’uomo?
Per quanto riguarda il pugilato, la prima è quando sono passato professionista nel 2001. La seconda, ovviamente, quando ho indossato la cintura mondiale. Un sogno che si è avverato: il mio nome accanto ai leggendari campioni della WBC, come Tyson, Ali, Maywether! La tappa più importante, però, resta e resterà sempre, l’uscita dal mondo della droga e l’entrata nel mondo della boxe, in particolare quando, diventando Campione d’Europa da dilettante, ho restituito a mia mamma la forza interiore. Dopo essersi vergognata per anni di suo figlio, ricordo che andò in giro volando, finalmente orgogliosa di me. Il fatto che lei fosse finalmente contenta e fiera del suo campioncino, dopo tanta sofferenza, è stato il momento più bello della mia vita, la mia più grande vittoria. Al ritorno dalle Olimpiadi di Sydney avrei voluto finalmente stare con lei, coccolarla e baciarla. Lei mi aspettò, mi vide, mi sorrise e purtroppo morì. Stetti malissimo ma almeno riuscii a darle un momento di pace.
Hai sfidato te stesso anche in un ambiente diverso dal tuo come quello dello spettacolo. La vittoria all’Isola dei Famosi, a differenza di quanto spesso accade, non ti ha affatto cambiato. Sei uscito in punta di piedi, in modo lineare come sul ring…
Per forza, sono un pugile. Sono nato pugile e morirò pugile. Come si dice il ring è lo specchio della vita. Come ti comporti sul quadrato ti comporti nella quotidianità e quindi e anche sotto i riflettori. Non amo la televisione ma ho partecipato al programma perché in quel momento è capitato ed è andata bene. Chi mi ha fatto vincere è il pubblico, perché si è rivisto in me: una persona normale che può anche partecipare ad un reality restando quella di sempre.
Anche nella generosità non ami mostrarti. Hai devoluto il montepremi alla Fondazione De Marchi Onlus del Policlinico di Milano, solo uno dei tanti impegni sociali che ti vedono sempre in prima linea. Cosa ti spinge a guardare oltre?
Mi piace e sento di doverlo fare. Quello che ho passato io spero che non lo passi mai nessuno. A chi si trova nelle stesse difficoltà auguro di rialzarsi, sempre e comunque. Porto solo la mia testimonianza, la mia esperienza per far capire che si può venire fuori dal tunnel e persino trovare la felicità. Mi dicono che sono sempre solare e forse questo è il vero segreto.
Rabbia, paura, dolore: un colpo al sacco, un sorriso e tutto passa. Cosa insegna Giacobbe ai suoi allievi e se uno di questi fosse un bullo?
Insegno che non si deve mollare mai, a reagire, a non pensare di avere tutto e subito ma che bisogna lavorare e guadagnarsi il rispetto. Di bulli ne entrano molti in palestra ma poi li metti alla prova, li inviti a confrontarsi con te e si smontano in un secondo. Vuoi salire sul ring per darmele? Vieni pure ma sappi che tutti siamo capaci a picchiare e che bisogna anche sapersi difendere. E non credere che basti essere arrabbiato per mettermi giù. E se poi non ci riesci? Devi essere capace di usare la tua forza, canalizzando la rabbia in energia positiva. Ci sarà sempre quello più forte di te e quindi dovrai imparare a tenergli testa. Più volte mi è capitato di allenare ragazzi carcerati che quando salgono sul quadrato sono spocchiosi. Li lascio sfogare e poi, quando sono stanchi, gli dico: adesso tocca a me. E, senza fargli nulla ovviamente, provo ad insegnargli un pò di umiltà. Una vicenda mi è rimasta impressa al Carcere Le Vallette di Torino, durante una lezione con il bullo del carcere, un ragazzo rumeno. Alcuni detenuti avevano scommesso su di me. Nella sala si respirava una tensione strana e dentro di me ho pensato: ‘vuoi vedere che questo pensa veramente di mettermi giù?’. Ho iniziato a boxare con molta calma. Il rumeno, invece, picchiava durissimo e così l’ho fatto sfogare. All’inizio della seconda ripresa gli ho detto:”adesso però iniziamo a dare spettacolo”. Ho fatto la mia boxe. Tutti sono rimasti male perché volevano che l’atterrassi. Io invece penso di avergli dato una grande lezione di vita. Da quel momento il ragazzo avrebbe fatto tutto quello che volevano. E così è stato. Una sana umiliazione che sicuramente è servita a lui come agli altri detenuti.
E se nella palestra entrasse un ragazzo vittima del bullismo?
Lavorerei molto con lui sul concetto di autostima. Bullo e vittima del bullismo sono diversi ma alla fine si conciliano sul ring. Il bullo si sfoga sul debole ma il debole, ritrovata la fiducia in se stesso, diventa forte e inattaccabile. Al bullo quindi cerco di farlo ragionare, alla vittima di fargli acquisire sicurezza per affrontare il mondo esterno. Chi insegna la boxe ha una grande responsabilità. Se il mio Maestro Ottavio Tazzi non mi avesse preso con le pinze non sarei mai diventato quello che sono. Lui mi diede e mi fece ritrovare la fiducia e lì scattò la molla.
Il 24 giugno ti vedremo di nuovo all’opera al Teatro Nuovo di Milano, in occasione della settima edizione del Galà degli Sport da Ring “The Night of Kick and Punch”. Cosa ti aspetti da questo ritorno?
Ce la metterò tutta e se andrà bene a settembre potrei tentare di raggiungere il record italiano, ossia disputare a quarantotto anni l’incontro per il Titolo Europeo dei Massimi Leggeri. Potrei addirittura incontrare Mirko Larghetti, un mio caro amico, che a giugno in Belgio si giocherà la cintura contro l’idolo di casa Yves Ngabu. Staremo a vedere. Una cosa è certa: bisogna sempre sognare, credere in quello che si fa e mai lasciarsi andare.
di Michela Pellegrini