Ricordo di Nelson Mandela, grande statista con il cuore di pugile

di Leonardo Pisani

La palestra era in un sobborgo di Soweto, se palestra si poteva definire mancava tutti, addirittura anche il ring, ci si allenava sul duro pavimento ma la passione era tanta, da quell’umidità e sporcizia usci anche qualche campione, come Eric Black Material Ntesele, campione sudafricano dei pesi gallo e Freddie Tomahawk Ngidi che vinse il titolo del Transvaal nei mosca, neri ovviamente; poveri ovviamente. Un allenamento duro, fatto con compassione, con altruismo per dividersi l’unico sacco esistente, le poche paia di guantoni; pantaloncini inesistenti, medicine e cassetta del pronto soccorso roba da ricchi che non potevano permettersi, paradenti mai visti se non chi combatteva ufficialmente. Tra gli aspiranti pugili e tra chi ogni sera si allenava per passione al Community Center c’era anche un giovane avvocato, discendente di una famiglia aristocratica del popolo nero sudafricano dell’etnia Xhosa, lo chiamavano Madiba. In realtà aveva già tirato di boxe, da giovanissimo ma senza convinzione, fu a Soweto che si applicò ad apprendere la noble art. Precisiamo non era un campione; quando ricordava quei periodi si definiva un peso massimo senza velocità e neanche la forza per compensarla, ma la passione era tanta, l’accompagnò per tutta la vita. Madiba era affascinato dalla tecnica, dalle movenze del corpo sul ring, studiava le tattiche e strategie per controbattere la forza bruta e trovare il ritmo per contrattaccare. Poi c’era un profondo messaggio nel tirare di boxe; lo considerava uno sport egualitario dove razza, posizione sociale, ricchezza colore della pelle, a volte anche età non hanno valore: sul ring si è soli contro l’avversario, lo si studia per sconfiggerlo senza pensare se sia nero o bianco, ricco o povero, animista o cattolico. Per il giovane avvocato fu soprattutto una palestra di vita, era il 1950, dopo qualche incontro giovanile e dopo essere entrato in politica, non combatteva più ma si allenava con costanza; trasmise la passione anche al figlio che lo accompagnava sempre. Per anni dal lunedì al giovedì, prendeva il figlio Thembi e andava in palestra, era un’ ora e mezzo di allenamento tra esercizi fisici, salto della corda, corsa, studio della boxe e poi un po’ di sparring partner, Madiba anche se non combatteva, aiutava i pugili sia dilettanti che professionisti e quando si avvicinava un incontro l’allenamento arrivava alle due ore e mezzo. Al Community Center tutti lo chiamavano “Capo” ormai era un conosciuto leader per la lotta ai diritti civili e politici; il figlio Mister Mandela e spesso lo prendeva in giro per come combatteva e lo rimproverava se batteva la fiacca. E si Nelson Mandela ricorderà sempre quel periodo, la boxe lo caricava di energia, anche mentale, lo faceva stare bene; ed era “egualitaria” della sostanza  in un paese dove esisteva apartheid. Nella sua biografia Lungo cammino verso la libertà” Nelson Mandela parla delle difficoltà dei pugili neri che erano due: la povertà, infatti i pochi soldi guadagnati venivano spesi tutti in cibo e sussistenza e il divieto di frequentare palestre con i bianchi, ossia quelle attrezzate e più idonee all’agonismo; i bianchi non permettevano a  nessun pugile nero di talento di poter avere una chance e poter entrare nel circuito internazionale. Poi gli allenamenti finirono all’improvviso, nel 56 un primo arresto poi nel 1962 quello definitivo che durò 28  anni. Ma il pugilato aiutò il prigioniero Mandela, costretto a subire un duro regime di isolamento trovava sfogo nel fare il vuoto, a boxare all’ombra, a tenersi in forma per meglio sopportare la barbarie del regime sudafricano. «La boxe è un modo per perdermi in qualcosa di diverso dalla lotta politica» ha ricordato nel suo libro “Conversazioni con me stesso” .

Nelson Rolihlahla Mandela nato a Mvezo il 18 luglio1918 fu liberato il l’11 febbraio 1990, su ordine del Presidente sudafricano F. W. de Klerk, e alla fine dell’illegalità per l’ANC. Mandela e de Klerk ottennero il Premio Nobel per la pace nel 1993. Il resto è storia. Non fu un grande pugile ma fu un gladiatore della Libertà sia per il suo popolo che per l’uguaglianza di tutti gli uomini; appunto la boxe è egualitaria; la sua passione non morì mai; in libertà seguì sempre la noble art; ha incontrato i suoi campioni preferiti; il grande Alì con cui hanno scherzato a  boxare e gli regalò dei guantoni,  il duro Joe Frazier che si commosse quando Mandela  gli puntò il dito e gli disse tu eri il mio idolo quando ero in prigione», Smoking Joe  gli appoggiò la testa sulla spalla con una lacrimuccia. Poi Leonard che gli donò la sua cintura mondiale, Tyson, Roberto Duran, Marvin Hagler, Lennox Lewis e tanti altri noti e meno noti. Nelson Mandela si è spento il 5 dicembre 2013 a Johannesburg , non è retorica ma resterà un Immortale nella memoria dell’Umanità, per la sua vita, le sue sofferenze e la sua azione in favore dell’Uomo, perché era un Egualitario, come la boxe che tanto amava.

 Da giovane lo sport che amava era la boxe. Come ha scritto Dario Torromeo nel suo bellissimo blog dedicato al pugilato (lo consiglio vivamente in carcere il pugilato ha aiutato Mandela «ad andare avanti. L’ha amato fin da ragazzo, quando andava ad allenarsi in una piccola palestra di Soweto. Ha boxato da dilettante, un peso medio che preferiva la tecnica alla bagarre. Uno che aveva colto l’essenza di questa disciplina».

«Amo la scienza del pugilato – ha scritto Mandela stesso – la strategia di attaccare e indietreggiare allo stesso tempo. La boxe significa uguaglianza. Sul ring il colore, l’età e la ricchezza non contano nulla. Ma più che il combattimento, a me piace l’allenamento regolare e costante, l’esercizio fisico che la mattina dopo ti fa sentire fresco e rinvigorito».

E anche nei 28 anni di carcere passato a Robben Island, dove lottò anche per metter in piedi una squadra di calcetto fra prigionieri (la Macana Football association, nella quale però a lui, detenuto in isolamento, non era permesso di giocare) la boxe lo aiutava a mantenersi in forma. «La boxe è un modo per perdermi in qualcosa di diverso dalla lotta politica» ha ricordato nel suo libro “Conversazioni con me stesso” volume. I grandi campioni hanno ricambiato il suo amore. Sugar Ray Leonard gli ha donato una cintura mondiale, Muhammed Ali ha voluto posare con lui, e quando ad una cena di gala a New York Mandela puntò il dito verso Joe Frazier dicendogli «tu eri il mio idolo quando ero in prigione», il grande Smoking Joe si commosse e gli appoggiò la testa sulla spalla come un bambino.

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