“50 anni dalla morte di Primo Carnera”: SFORTUNATO E GRANDE

 

 Sequals 29 giugno 2017 – Se vi recavate a Milano nel 1935,  al Palazzo dell’Arte a Parco Sempione c’era da visitare la Mostra Nazionale dello Sport, a cura del CONI. Entrando nel padiglione del pugilato, colpiva la sagoma in cartonato alta 280 centimetri di Primo Carnera: quel torace smisurato da statua di Michelangelo sovrastante due gambe lunghissime, dalle quali un abile ritocco aveva fatto sparire le vene varicose.  L’ex campione del mondo, nell’estate dell’Anno XII, era ancora un eroe della stirpe italica, e come tale veniva rispettato nelle produzioni del regime. Ma, all’epoca, ‘The Walking Mountain‘ risiedeva a New York, in mano ai gangsters. Avvalendoci anche di documenti inediti degli archivi di Stato, andiamo a dirvi qualcosa su Carnera in America, anni 1930-1936. Non per svilire l’immagine del nostro caro gigante di Sequals, tutt’altro. Per comprendere appieno le sue traversie e sofferenze. L’incredibile parabola.

Dalla città della luce alla terra dei sogni

Il collegamento tra Carnera e la criminalità organizzata statunitense va fatto risalire al gennaio del 1930, quando il suo manager Leon See, giornalista e impresario di spettacoli, sbarcò con lui a Long Island per sfruttarne la popolarità presso il milione di italo-americani ivi residenti. See, fin dal debutto di Carnera al professionismo, aveva seguito uno schema: mettergli di fronte avversari non superiori tecnicamente, in modo che potesse contrastarli in virtù della sua curatissima forma fisica e, ovviamente, ammorbidire i match. Carnera esibiva una muscolatura possente e poco pugno, per cui si doveva orchestrare bene lo spettacolo e fissare perfino il round del knock out. Un gioco abbastanza scoperto, che aveva indotto la Gazzetta dello Sport a  definire il friulano «un bluff gonfiato a Parigi da alcuni affaristi della boxe a scopo di speculazione». Questo è un punto importate da chiarire: la stampa di regime, all’inizio, presentò Carnera come un falso campione.

Una volta immerso nel magmatico caos della New York post Big Crash,  See fu avvicinato dai mobsters locali, i pericolosi individui che agivano all’interno della criminalità cittadina suddivisa per bande. Le due principali ghenghe erano Cosa Nostra (Lucky Luciano e le Five Families) e la Jewish Mafia. I banditi gli fecero capire come fosse impossibile andare a pesca senza il loro consenso. Essi rispondevano ai nomi di ‘Broadway’ Bill Duffy, ‘Mad Dog’ Vince Coll, George Jean ‘Big Frenchy’ DeMange e altri. Teneva le fila Owen Vincent Madden, o anche ‘The Killer’. Madden era uno dei beer barons della Prohibition. Possedeva il Cotton Club, la mecca del gin-and-jazz nel quartiere di Harlem. Se avete in mente il film di Francis Ford Coppola del 1984, capirete l’atmosfera che si respirava, sul tipo: balliamo al ritmo del tip-tap tra grandinate di pallottole.

Madden s’era messo nel fight racket con Duffy come arpionatore, e così aveva ordinato di “seguire” Carnera, lanciato in due tour state-to-state nel 1930 e 1931. Nel giugno del ’32, See, spaventato, passò infine Carnera a Duffy, che puntò forte sul gigante con un terzo tour di vittorie in serie, al ritmo di tre al mese. Duffy aveva l’appoggio, pagato 250.000 $, di giornalisti importanti. Spiccava Alfred Damon Runyon, columnist della catena di quotidiani King Features Syndicate Inc., controllata da William Randolph Hearst, quello del film Citizen Kane (Quarto Potere). Carnera fu così gestito direttamente da Duffy e da un businessman locale, Luigi Soresi. un piacentino emigrato a Manhattan nel 1913 a lavorare a Wall Street. Il crollo della Borsa nell’autunno del ’29 e la frequentazione dei nightclub di Broadway l’avevano spinto nelle braccia della mafia. Soresi faceva il procuratore sportivo e abitava in una suite-ufficio all’Hotel Victoria, nel cuore di NY. Era il frontman, uomo al 100% di Madden. Grazie a lui, una volta nominato fiduciario della FPI in USA, andò in porto l’accordo tra i gangsters e il regime, che smise di dileggiare Carnera e lo riqualificò come campione fascista.

Vinto e perso il Mondiale: due “zero” sulla roulette

Duffy e Soresi cominciarono a rubare soldi a tutto spiano, giacché Carnera punto si preoccupava di verificare le transazioni portate a compimento sopra la sua testa. Se ne disinteressava non perché fosse uno stupido, semplicemente aveva capito di non avere altra opzione: era in trappola! Al riguardo, esistono due riscontri. La notte in cui s’impossessò della cintura iridata battendo Jack Sharkey, evento che fruttò al suo entourage la spartizione sull’unghia di 59.000 $, Carnera se ne mise in tasca appena 360. Il secondo riscontro arriva da Aldo Spoldi, pure lui vittima, ma non in un modo così brutale, del fight racket. Spoldi, in un’autobiografia, scriverà infatti: «Dagli archivi della International Revenue in Washington […] potemmo renderci conto che la scheda delle tasse di Primo specificava che nel periodo dal 1930 al 1936 aveva guadagnato per sé personalmente oltre un milione e mezzo di dollari».

Il match con Sharkey, un newyorchese di origini lituane pupillo del boss Al Capone, si disputò al Madison Square Garden, nel quartiere di Brooklyn, il 29 giugno 1933.  Sharkey, il cui vero nome era Joseph Zukauskas, due anni prima aveva battuto Carnera in 15 round e poi aveva conquistato il titolo col tedesco Schmeling. Da un bel po’ sulla breccia, era un trentunenne pieno di sé ma iperemotivo, e Primo questa volta lo mise KO grazie a un uppuercut destro azzeccato alla sesta ripresa. Sharkey commentò: “Ho dimenticato di schivarlo…”. Ma l’italiano non era più il grezzo tirapugni degli inizi, ora aveva imparato bene la tecnica, giostrava di scherma e poteva considerarsi un pugile vero.  La vittoria suscitò l’entusiasmo degli italo-americani e procurò una certa sorpresa in Italia, tanto che la notizia fu ripresa dai giornali solo in ultima pagina. Carnera, superata la crisi morale seguita al match con Ernie Schaaf (morte sul ring del suo avversario), un incidente che gli aveva seriamente fatto pensare al ritiro (e i gangsters a dire no, non ora… ti combiniamo un incontro per il titolo…), all’improvviso si ritrovò in possesso della cintura iridata heavyweight. Una corona regale che molti cittadini del vecchio e nuovo mondo avrebbero voluto pe sé, perché significava essere il più forte essere umano sulla terra.  Subito Duffy e Soresi gli organizzarono due difese a Roma e a Miami, contro Paolino Uzcudun e Tommy Loughran. Soprattutto il match col basco, allestito a Piazza di Siena al cospetto del duce e di una folla di 50.000 anime, rimase nella storia per la propaganda pazzesca messa in piedi dal regime, ora intenzionatissimo a sfruttare al massimo la fama di Carnera.

Ma durò poco. Il destino del gigante fu deciso non da Benito Mussolini bensì in America.   Duffy lo servì su un piatto d’argento a Max Baer, un venticinquenne figlio di immigrati francesi cresciuto in Colorado e in California, un belloccio che pensava più al cinema e alle donne che alla boxe. Così agendo, il gangster indispettì il fascismo italiano, che non voleva lo scontro col “clown ebreo” ma un duello tutto europeo con Schmeling, magari a Roma con la rivincita a Berlino. Ancora oggi, non si capisce bene se pure il match con Sharkey fosse stato arrangiato da quelli della Purple Gang di Detroit e da Al Capone, ma è sicuro, documenti d’archivio lo suggeriscono, che il clash con Baer, tra l’altro molto amico del friulano per via di un film girato insieme, subì un fixing, e questa volta ai danni di Carnera. Che venne drogato per allentargli i riflessi, e le scommesse contro di lui furono talmente ingenti che i gangsters se ne vantarono boriosamente alla vigilia. Carnera stesso denunciò la cosa, ma inutilmente.

La sconfitta disastrosa con Baer (11 atterramenti, un coraggio sovrumano mostrato dal campione) segnò il destino della “Montagna che cammina”. Duffy e Soresi lo tennero sulla corda un attimo ancora, usandolo per lanciare Joe Louis nel 1935. La FPI cercò di opporsi per motivi politici (non si voleva il duello col “negro” Louis proprio mentre le truppe invadevano l’Etiopia), ma Soresi resse il gioco di Duffy. Poi rullarono i due match coll’altro colored di belle speranze, Haynes, e infine la chiusura del sipario. Il povero ‘Praimo‘ ripartì da NY per l’Italia con una manciata di dollari, ingannato da tutti e minato nel fisico. Sparì dalle figurine messe in vendita per corrispondenza dalla Gazzetta dello Sport. Non era più un alfiere della razza italica. E i verdoni pesanti, a Dreamland, li avrebbe fatti col catch nel dopoguerra.

di Marco Impiglia

 

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